Dire Fare Pensare il Presente – Sezione Lavoro

 

LA PRODUZIONE IMMATERIALE. FEMMINILIZZAZIONE DEL LAVORO E ALTRE METAMORFOSI

IL POSTFORDISMO 

Il capitalismo cognitivo contemporaneo viene caratterizzato tramite uno
slittamento della produzione da materiale a immateriale. Si tratta quindi di
uno mutamento che mette al centro del ciclo economico il cosiddetto general
intellect, la produzione e la gestione di linguaggi e codici che avviene
tramite l’attività sociale dei soggetti umani. Il fatto di inglobare
all’interno del ciclo produttivo praticamente l’intera vita dei soggetti
produce una modificazione radicale dell’economia stessa. Una delle categorie
centrali nell’analisi e nella pratica politica marxista è quella di
sfruttamento come estrazione di plusvalore dal lavoro dell’operaio. Ma se è
vero che oggi la legge del valore sembra venire meno, se è vero che il confine
tra tempo di vita e tempo di lavoro sfuma fin quasi a dileguare, che ne è dello
sfruttamento? Possiamo continuare a usarlo come paradigma interpretativo? Va
abbandonato o deve essere rideclinato?

Inoltre la suddetta indistinzione
tra tempo di vita e tempo di lavoro rende il lavoro stesso una dimensione
omnipervasiva. Una delle strategie possibili, proposte, per liberare del tempo
dal lavoro, affinchè esso possa essere dedicato ad aspirazioni altre rispetto
alla propria professione, è quello di “tagliare” questo tempo, ritagliarne
delle parti dedicandole a interessi diversi. Quel che appare in molti casi è, però,
che il tempo liberato sia allo stesso modo pregno di quelle tecniche
comunicative, informative e produttive di conoscenza che non fanno parte solo
del lavoro. Il tempo liberato non dovrebbe essere di tutt’altra natura? A
questo punto ci si chiede se non sia questo un tempo occupato allo stesso modo,
ma non remunerato e riconosciuto?

Uno dei mutamenti centrali a cui
il mondo del lavoro è andato incontro negli ultimi decenni è la cosiddetta
femminilizzazione del lavoro. Con questo termine si definisce la richiesta di
competenze relazionali e l’organizzazione del lavoro attraverso queste
competenze. D’altro canto però un altro dei mutamenti è la generale
de-specializzazione del lavoro connessa all’aumento dei lavori temporanei e
quindi, dal punto di vista individuale al fatto che durante l’arco di una vita
si cambiano tanti mestieri e spesso in campi diversi. La nostra domanda verte
proprio sul rapporto tra questi due mutamenti. In prima istanza vorremmo che
fosse chiarito cosa si intende con esattezza con competenze relazionali e come
l’idea di relazioni sociali muta una volta inglobata dal capitalismo cognitivo.
Le relazioni sociali e la capacità di gestirle diventano sì importanti sul
luogo di lavoro ma inevitabilmente, una volta sottomessi alla produzione,
questi due aspetti vanno incontro ad una mutazione. In che misura mutano? Come
mutano? Il termine “femminilizzazione” è dovuto al fatto che queste qualità e
competenze sono state tradizionalmente riconosciute come patrimonio delle donne
più che degli uomini. Una volta però che anche esse sono state “messe al
lavoro”, quanto conservano della loro “femminilità” originale? Insomma, che ne è
della differenza sessuale?

Infine, che rapporto c’è tra
de-specializzazione e femminilizzazione? In che modo questi due elementi
agiscono in diversi ambiti e diverse tipologie di lavoro? Per esempio nel
lavoro più tradizionale in fabbrica o nel lavoro cognitivo vero e proprio?
Inoltre come si districa il rapporto tra questi mutamenti e la crescita di
comparti come quelli legati alla gestione del personale? Le capacità
relazionali sono una competenza ma non specializzano. E’ corretto? E’ sempre
vero?

Prendendo spunto da un possibile
collegamento tra lo sviluppo del taylorismo e del fordismo e la nascita di
tradizioni politiche basate sull’autoritarismo nella prima metà del secolo scorso,
è possibile istituire un medesimo parallelo tra le odierne forme del lavoro e
le forme di organizzazione politica. A prima vista la dismissione dello
stato-nazione sembra procedere nella medesima direzione del capitalismo
cognitivo, cioè verso una deregolamentazione che lasci campo libero ai soggetti
del mercato per quanto riguarda la società e che favorisca una produzione non
più strettamente tayloristica, basata sulla relazionalità e sulla produzione di
linguaggi nel mondo del lavoro. La nostra domanda però vorrebbe chiedere se è
possibile una analisi che metta in luce forme di continuità tra il taylorismo e
il mondo del lavoro contemporaneo. Non è plausibile pensare il controllo e il
disciplinamento sia sociale che specificatamente sul luogo di lavoro in
continuità con il fordismo? La produzione immateriale non è fondata spesso
sulla reiterazione di codici che il lavoratore o la lavoratrice compiono in
maniera spersonalizzata e lontano dall’idea comune di creatività? Nei
famigerati call center gli operatori e le operatrici non sono soggetti a nuove
forme di taylorizzazione del lavoro? Di nuovo, non è possibile intravedere in
queste modalità meccanismi di disciplinamento non molto diversi da quelli delle
fabbriche novecentesche?

Seguendo questa linea di ragionamento è forse legittimo chiedere:
quanto del mondo post-fordista era implicato dal mondo fordista?

In continuità con quanto detto è possibile pensare che il controllo
sulla società nei paesi occidentali all’inizio del XXI secolo si eserciti non
più solamente ed esplicitamente tramite una rigida disciplina di fabbrica, ma piuttosto
tramite un disciplinamento dei consumi e dei desideri? Considerando poi i
meccanismi dell’economia che succede al post-fordismo, non si tratta di un modo
per continuare ad usare i luoghi di lavoro “informali”, cioè quelli che
ufficialmente non sono luogo di lavoro ma che comunque rientrano negli ambiti
della produzione di capitale, come luoghi di disciplinamento?

Nel mondo occidentale il terziario è ormai largamente dominante sul
resto dei settori dell’economia. La produzione si fa immateriale, si mettono a
valore tutte le competenze relazionali, linguistiche, informazionali, cognitive
dell’essere umano, a scapito delle sue capacità più immediatamente fisiche e
materiali. Ma nel resto del mondo? Lì i settori primario e secondario (quelli
insomma della produzione cosiddetta “materiale”) sono ancora egemoni. E’
possibile allora che, anche a causa della dislocazione della produzione
industriale occidentale nei paesi non occidentali, si sia venuta a creare una
sorta di divisone globale tra lavoro intellettuale e lavoro manuale?

NUOVE SOGGETTIVITA’ SUL LUOGO DI LAVORO

Nel mondo post-fordista la
comunicazione è elemento centrale non solo del ciclo produttivo ma in generale
della vita. Grazie ai mezzi tecnologici accessibili a tutti, in un certo senso
è diventato facile intessere grandi reti di relazioni, purtroppo però si è
registrata una crescente difficoltà nella capacità di queste reti a
stabilizzarsi ed eventualmente produrre forme di solidarietà che riescano ad
avere un peso politico all’interno delle dinamiche che regolano la produzione.
Come sarebbe possibile ricreare spazi di resistenza ai meccanismi di
individuazione e precarizzazione? Le forme classiche delle organizzazioni dei
lavoratori sono ormai superate?

In questo senso uno dei problemi dei tradizionali organismi di
rappresentanza del lavoro (primi tra tutti, partiti e sindacati) pare essere
quello di rimanere ancorati a categorie novecentesche di analisi politica ormai
obsolete e inutilizzabili. Ma è possibile che la stessa idea di rappresentanza
sia una di queste categorie novecentesche in crisi? Vedete segnali che vi
sembrano puntare verso forme di autorganizzazione del mondo del lavoro? O
credete che una rappresentanza, magari ripensata in modo nuovo, sia ancora
necessaria come strumento di lotta?

Marx aveva visto nel proletariato il futuro soggetto rivoluzionario.
Tuttavia, già da tempo si parla di “addio al proletariato”. Esiste oggi un
nuovo soggetto cui affidare le nostre istanze di giustizia sociale? Che
cambiamenti sono stati apportati, in questa prospettiva, dall’emergere di nuove
soggettività politiche rivoluzionarie che però hanno esplicitamente rifiutato
la logica della presa del potere (pensiamo al movimento delle donne)? Più in
generale: è ancora possibile ragionare nei termini della dicotomia classica di
riformismo o rivoluzione? E in caso di risposta negativa, come salvaguardare
comunque la tensione trasformativa verso un cambiamento radicale dello status
quo?

Sulla stessa scia ma assumendo
una prospettiva più ristretta ci chiediamo, in un sistema che tende ad
inglobare l’identità dei soggetti, la loro socialità, all’interno del sistema
capitalistico, quali spazi di movimento vengono lasciati aperti alla vita del
singolo e della singola? Come si ridefinisce l’identità stessa del singolo e
della singola, e la differenza che li attraversa? In che modo è possibile
sfruttare questa nuova situazione a proprio vantaggio e ridefinire se stessi in
maniera da resistere e produrre alternative e da riuscire a ricostruire un
proprio spazio di autonomia?

REDDITO DI BASE

Uno dei temi che abbiamo trattato nei mesi che hanno preceduto la
tavola rotonda è stato quello del reddito di base. Essendo una proposta che
abbiamo giudicato interessante e che si confronta con la nuova struttura del capitalismo
contemporaneo desideriamo innanzi tutto sapere cosa ne pensano tutti i relatori
e tutte le relatrici?

Il reddito di base viene solitamente rivendicato come equivalente al
livello minimo di sussistenza. Giustificandolo come salario corrispettivo di un
lavoro cognitivo socialmente svolto, cosa garantisce che tale reddito
corrisponda al livello minimo di sussistenza? Non è pensabile che
l’argomentazione fondata sulla “rivendicazione salariale” da sola possa portare
ad un reddito di base inferiore? In altre parole, ammesso che il lavoro svolto
sia quantificabile anche in un modello post-fordista, non potrebbe questo
essere inferiore al lavoro corrispettivo del salario minimo alla sussistenza?

Il reddito di base, se reclamato ad un livello inferiore a quello
minimo di sussistenza, non rischia di divenire funzionale al sistema del
ricatto della precarietà? In altre parole, se ho un reddito di base che però
non mi permette di sopravvivere, non sarò più pronto/a ad accettare anche
lavori sottopagati e a condizioni di impiego umilianti?

Inoltre l’eventuale erogazione su base individuale di un questo reddito
non potrebbe favorire dinamiche di consumismo individualistico? Senza un
parallelo cambiamento di modelli culturali,  non si rischia di incentivare semplicemente una corsa al
consumo eccessiva e sganciata da una partecipazione attiva alle altre
componenti della vita sociale?

Esistono modelli concreti e attualmente in uso di reddito di base? Se sì,
come hanno risposto ai problemi finora evidenziati?

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